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Le Unioni di fatto dopo la Sentenza 138/2010 della Corte Costituzionale

Intervento dell’Avv. Maria Pia Lessi al convegno dell’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia del 10.06.2010 a Livorno sul tema: ” La famiglia/le famiglie dopo l’introduzione nell’ordinamento italiano della Carta di Nizza”

Particolarmente attuale oggi parlare di diritto costituzionale.
Come afferma Gustavo Zagrebelsky “ se l’imperfezione di chi governa ci obbliga a difendere la costituzione” La Repubblica 15.01.2009 “ Eppure l’esigenza e i tentativi di difesa della Costituzione sono antichi come la riflessione sui problemi dell’’umana convivenza politica. Possiamo assumere come archetipo le considerazioni di Platone sui custodi delle leggi fondamentali, i nómoi della città, ch’egli considerava non come strumenti del potere dei più forti (come facevano i sofisti), ma come scienza e filosofia applicate alla società bene ordinata.
Nello Stato perfetto, nel quale sorgesse «un re quale s’ingenera negli alveari, uno che di corpo subito appaia superiore e d’’anima», a questo re occorrerebbe affidarsi, alla sua scienza e saggezza, e non a rigide leggi, che non sanno adattarsi all’’irriducibile varietà della vita………. Poiché, però, accade che un simile re-filosofo, dotato di virtù politiche, non sempre, anzi quasi mai, esiste, «è pur necessario che i cittadini adunatisi scrivano delle leggi, seguendo le tracce della forma di governo più vera tra tutte». Da qui, dall’’imperfezione dei governanti, deriva la necessità delle leggi e, per conseguenza, la necessità che le leggi siano rispettate: le forme di governo – monarchia, aristocrazia e democrazia – saranno tanto migliori quanto più sarà garantito questo rispetto……….. Nel nostro Stato ci deve essere un Consiglio formato di dieci custodi delle leggi………. Se facciamo di questo Consiglio come l’’ancora di tutto lo Stato, questa ancora, fornita di tutto ciò che si conviene, ci conserverà tutto quello che noi vogliamo…..
Il tema che mi e’ affidato riguarda le unioni di fatto alla luce della sentenza 138 del 15.04.2010 della Corte Costituzionale.
Le unioni di fatto sono infatti state oggetto di diversi interventi della Corte in relazione alle cd. Convivenze “ more uxorio” vale a dire alle unioni composte da un uomo e una donna che convivono con vincoli affettivi, senza considerare esplicitamente la convivenza tra persone dello stesso sesso.
La sentenza 138 del 13.04 u.s. della Corte presenta 2 caratteri di novita’:
– per la prima volta la Corte si pronuncia sulla unione omosessuale e questo dopo il recepimento della Carta di Nizza da parte del Trattato di Lisbona entrato in vigore il 01.12.2009 in Italia.
Vi propongo quindi
1- una rapida rilettura e condivisione del testo
2- la presentazione degli elementi di continuita’ e di discontinuita’ della Corte rispetto alle precedenti pronunce
3- le questioni che rimangono aperte
4- per concludere con la presentazione di una buona pratica nelle more dell’auspicato intervento legislativo.
La sentenza afferma che e’ inammissibile la questione di legittimita’ costituzionale degli art. 93,96,98,107,108,143,143 bos e 156 bis c.c in riferimento all’art. 2 della Costituzione perche’ diretta a ottenere una pronuncia additiva non costituzionalmente obbligata che estenda alle unioni omosessuali la disciplina del matrimonio civile. Spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalita’, individuare forme di garanzia e riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte Costituzionale la possibilita’ di intervenire a tutela di specifiche situazioni.
E’ inammissibile la questione di legittimita’ costituzionale degli art. 93,96,98,107,108,143,143 bos e 156 bis c.c in riferimento all’art. 117 I co. della Costituzione, in quanto l’art. 9 della Carta di Nizza, come recepita dal trattato di Lisbona entrato in vigore il 01.12.2009, nell’affermare il diritto di sposarsi rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. Detto articolo non vieta ne’ impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso.
E’ infondata la questione di legittimita’ costituzionale degli art. 93,96,98,107,108,143,143 bos e 156 bis c.c in riferimento all’art. 29 della Costituzione in quanto la norma si riferisce alla nozione di matrimonio definita dal c.c., che stabilisce che i coniugi devono essere persone di sesso diverso.
E’ infondata la questione di legittimita’ costituzionale degli art. 93,96,98,107,108,143,143 bos e 156 bis c.c in riferimento all’art. 3 della Costituzione in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio.
Egualmente differente e’ la condizione dei soggetti che abbiano ottenuto la rettificazione dell’attribuzione di sesso in forza della legge 14.04.1982 n. 164 che possono contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso d’origine.
Nasce da due ordinanze di remissione del Tribunale di Venezia e della Corte d’Appello di Trento in opposizione all’atto con cui gli Ufficiali di Stato Civile di quei 2 comuni avevano rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio richiesta dai ricorrenti in quanto nel nostro ordinamento non e’ previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso.
Segnalo che la circolare del 2004 del Ministero dell’Interno considera il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso contrario all’ordine pubblico.
Anche la Corte d’Appello di Firenze con ordinanza 13.11.2009 ha rimesso gli atti alla Corte sulla stessa questione.
La Corte sul I profilo sollevato in relazione all’art. 2 rileva: “si deve dunque stabilire se il parametro costituzionale evocato dai rimettenti imponga di pervenire ad una declaratoria d’illegittimità della normativa censurata (con eventuale applicazione dell’art. 27, ultima parte, della legge 11 marzo 1953, n. 87 – Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), estendendo alle unioni omosessuali la disciplina del matrimonio civile, in guisa da colmare il vuoto conseguente al fatto che il legislatore non si è posto il problema del matrimonio omosessuale”
E su questo “ vuoto” legislativo ritornero’ in conclusione come elemento di elaborazione.
La Corte afferma con chiarezza in riferimento all’art. 2 che : “ Per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.
Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate ( e infatti, anche limitandoci all’area Europea al modello francesce dei Pacs si aggiunge del matrimonio in Olanda, Belgio, Spagna e Portogallo).
Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza.”
Per quanto attiene alla asserita lesione dell’art. 3 rispetto alla normativa della L. 14.04.1982 n. 164 in materia di rettificazione di attribuzione di sesso la Corte afferma che : “ con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio.
Il richiamo, contenuto nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia, alla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), non è pertinente.
La normativa ora citata – sottoposta a scrutinio da questa Corte che, con sentenza n. 161 del 1985, dichiarò inammissibili o non fondate le questioni di legittimità costituzionale all’epoca promosse – prevede la rettificazione dell’attribuzione di sesso in forza di sentenza del tribunale, passata in giudicato, che attribuisca ad una persona un sesso diverso da quello enunciato dall’atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali (art. 1) “.
Piu’ interessante, ai nostri fini, la pronuncia della Corte in relazione all’art. 117:“ Il rimettente in primo luogo evoca, quali norme interposte, gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952); pone l’accento su una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in causa C. Goodwin c. Regno Unito, 11 luglio 2002), che dichiarò contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale (dopo l’operazione) con persona del suo stesso sesso originario, sostenendo l’analogia della fattispecie con quella del matrimonio omosessuale; evoca altresì la Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e, in particolare, l’art. 7 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), l’art. 9 (diritto a sposarsi ed a costituire una famiglia), l’art. 21 (diritto a non essere discriminati); menziona varie risoluzioni delle Istituzioni europee, «che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti»; infine, segnala che nell’ordinamento di molti Stati, aventi civiltà giuridica affine a quella italiana, si sta delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali.
Ciò posto, si deve osservare che: a) il richiamo alla citata sentenza della Corte europea non è pertinente, perché essa riguarda una fattispecie, disciplinata dal diritto inglese, concernente il caso di un transessuale che, dopo l’operazione, avendo acquisito caratteri femminili (sentenza cit., punti 12-13) aveva avviato una relazione con un uomo, col quale però non poteva sposarsi «perché la legge l’ha considerata come uomo» (punto 95). Tale fattispecie, nel diritto italiano, avrebbe trovato disciplina e soluzione nell’ambito della legge n. 164 del 1982. E, comunque, già si è notato che le posizioni dei transessuali e degli omosessuali non sono omogenee (v. precedente paragrafo 9); b) sia gli artt. 8 e 14 della CEDU, sia gli artt. 7 e 21 della Carta di Nizza contengono disposizioni a carattere generale in ordine al diritto al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di discriminazione, peraltro in larga parte analoghe. Invece gli articoli 12 della CEDU e 9 della Carta di Nizza prevedono specificamente il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. Per il principio di specialità, dunque, sono queste ultime le norme cui occorre fare riferimento nel caso in esame.
Orbene, l’art. 12 dispone che «Uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto».
A sua volta l’art. 9 stabilisce che «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».
In ordine a quest’ultima disposizione va premesso che la Carta di Nizza è stata recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Infatti, il nuovo testo dell’art. 6, comma 1, del Trattato sull’Unione europea, introdotto dal Trattato di Lisbona, prevede che «1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i princìpi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati».
Non occorre, ai fini del presente giudizio, affrontare i problemi che l’entrata in vigore del Trattato pone nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali, specialmente con riguardo all’art. 51 della Carta, che ne disciplina l’ambito di applicazione. Ai fini della presente pronuncia si deve rilevare che l’art. 9 della Carta (come, del resto, l’art. 12 della CEDU), nell’affermare il diritto di sposarsi rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. Si deve aggiungere che le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate sotto l’autorità del praesidium della Convenzione che l’aveva redatta (e che, pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione), con riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l’altro) che «L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso».
Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli uomini ed alle donne, è comunque decisivo il rilievo che anche la citata normativa non impone la piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna.
Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento.
Ulteriore riscontro di ciò si desume, come già si è accennato, dall’esame delle scelte e delle soluzioni adottate da numerosi Paesi che hanno introdotto, in alcuni casi, una vera e propria estensione alle unioni omosessuali della disciplina prevista per il matrimonio civile oppure, più frequentemente, forme di tutela molto differenziate e che vanno, dalla tendenziale assimilabilità al matrimonio delle dette unioni, fino alla chiara distinzione, sul piano degli effetti, rispetto allo stesso.
Sulla base delle suddette considerazioni si deve pervenire ad una declaratoria d’inammissibilità della questione proposta dai rimettenti, con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.
Per quanto riguarda la continuita’ di impostazione rilevo che la sentenza ribadisce quanto sin dalla sentenza 6/1997 affermato e cioe’:
1- che le convivenze sociali sono rilevanti non solo dal punto di vista sociale ma anche giuridico.
Nella sentenza n. 6/1977 la Consulta affermò che «de iure condendo, la normale presenza di quegli interessi (delle famiglie di fatto, n.d.r.), non dovrebbe rimanere senza una tutela per le dette situazioni omesse ed in particolare per quella che ricorre nella specie (vale a dire “una situazione affettiva di natura familiare, basata sulla convivenza e animata da intenti di reciproca assistenza e da propositi educativi della prole comune”). E sarebbe, quindi, compito del legislatore di valutare, per detti interessi, l’importanza e la diffusione» (sentenza n. 6/1977). (confr. Emanuele Rossi “ La Costituzione e i Dico, ovvero della difficolta’ di una disciplina legislativa per le convivenze”)
Questo e’ indirizzo ribadito nelle sentenze 237/86 e del 94.
2- Il secondo principio e’ la distinzione tra forme di convivenza e matrimonio.
Il criterio generale che sembra ricavarsi colloca la tutela delle due situazioni nell’ambito di principi costituzionali diversi: la tutela della famiglia all’interno della previsione di cui all’art. 29 Cost.;
la tutela delle convivenze more uxorio nell’ambito delle garanzie da riconoscersi alle formazioni sociali ex art. 22.
La ratio di tale distinzione discende in primo luogo dalla differenza ontologica tra le due situazioni: secondo la Corte, «la convivenza more uxorio è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità o certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri, previsti dagli artt. 143, 144, 145, 146, 147, 148 c.c., che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della famiglia legittima»3, tanto è vero che «la coabitazione del convivente more uxorio può cessare per volontà di uno dei conviventi in qualsiasi momento anche mediante azione giudiziaria» (confr.sentenza n. 45/1980).
In altra occasione la Corte ha precisato che la convivenza more uxorio è «per sua natura fondata sulla affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile – di ciascuna delle parti» (sentenza n. 423/1988), mentre i diritti e i doveri inerenti al matrimonio si caratterizzano per la certezza e la disciplina legale del rapporto su cui si fondano (sentenza n. 2/1998): conseguentemente la convivenza, a differenza del matrimonio, si caratterizza per la «mancanza o (il) diverso atteggiarsi dell’obbligo giuridico di assistenza», tale da impedirne il raffronto in termini di parità di trattamento (sentenza n. 127/1997)4.
Se poi non deve escludersi che anche nella convivenza possano esservi interessi meritevoli di tutela, tuttavia questi devono essere dimostrati (attraverso «una indagine che può anche non essere breve né facile»); mentre nella famiglia legittima essi sono presunti (sentenza n. 6/1977).
In modo più compiuto, la sentenza n. 8/1996 ha precisato che per la considerazione giuridica delle famiglie di fatto si deve tenere conto del «maggior rispetto da riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività individuale dei conviventi», mentre nel rapporto di coniugio maggior rilievo deve essere riconosciuto «alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale» (ibidem)
3- Il terzo principio e’ la garanzia della liberta’ individuale delle persone anche in relazione ai loro rapporti di convivenza.
Nella sentenza 166/1998 la Corte afferma che la similarità tra la situazione della famiglia e quella della convivenza «non è voluta dalle stesse parti, che nel preferire un rapporto di fatto hanno dimostrato di non voler assumere i diritti e i doveri nascenti dal matrimonio; onde la imposizione di norme, applicate in via analogica, a coloro che non hanno voluto assumere i diritti e i doveri inerenti al rapporto coniugale si potrebbe tradurre in una inammissibile violazione della libertà di scelta tra matrimonio e forme di convivenza».
Da tale affermazione sembrerebbe doversi dedurre la inammissibilità di una disciplina legislativa (ma forse anche di una giurisprudenza) che senza una espressa dichiarazione di volontà dei soggetti conviventi estenda loro situazioni giuridiche previste per il matrimonio (come avviene ad esempio in alcune legislazioni sudamericane ed anche in quella portoghese13): giacché dette situazioni nel matrimonio sono volute dalle parti, mentre nella convivenza sarebbero imposte a prescindere da una manifestazione di volontà; anzi, nell’ipotesi di convivenze tra due persone che potrebbero celebrare il matrimonio, esse sono (implicitamente) rifiutate.
Interessante a questo proposito i rilievi dell’ordinanza della Corte d’Appello di Firenze di remissione alla Corte Costituzionale che, con spirito libertario molto “ toscano” presta attenzione all’aspetto doveri, strettamente connesso a quello dei diritti “ Paradossalmente, il vero limite che potrebbe frenare l’allargamento dell’istituto coniugale alle coppie omosessuali sta nella considerazione per cui il “ diritto” al matrimonio non reca soltanto benefici, ma trascina una nutrita serie di controindicazioni, ammantando lo sposo di una veste intessuta di connotazioni largamente coercitive. Ai diritti coniugali si contrappongono infatti pesanti limitazioni nella sfera delle liberta’ individuali, quali l’obbligo di coabitazione, l’obbligo di assistenza morale e materiale, l’obbligo di fedelta’ sessuale, che sarebbero inconcepibili senza sottendere il perseguimento di una finalita’ superiore.
Questa riflessione, da un lato, rivela tutta l’inadeguatezza del ragionamento seguito dal giudice di primo grado, ossia smentisce apertamente che l’autonomia di diritto privato possa supplire adeguatamente alla disciplina matrimoniale, all’evidenza pervasa da interessi pubblicistici non trasponibili altrove. Nessun contratto puo’ obbligare alla coabitazione o alla fedelta’ sessuale: solo e soltanto il matrimonio puo’ assicurare agli omosessuali il conseguimento di un risultato di questo genere, d’altro lato si tratta di un risultato giuridico non privo di costo che, nella coppia eterosessuale (almeno ab origine) trova corrispettivo essenziale nella finalita’ procreativa e, quindi, si collega alla necessita’ di saldare un nucleo stabile iperprotettivo a fondamento della famiglia. In quest’ottica, il matrimonio realizza si una libera e consapevole aspirazione fondamentale dell’individuo, nondimeno lo colloca in una posizione costrittiva che non ha eguali nell’ordinamento”
Condivido in pieno le osservazioni di Susanna Lollini e Enzo Menzione sulla novita’ della pronuncia che richiede espressamente che si arrivi ad una disciplina “ di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia”.
La Corte dopo aver auspicato che il Parlamento intervenga, si riserva di valutare se tale intervento (la futura legge) garantisca un “ trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte puo’ garantire con il controllo di ragionevolezza”.
Chiaramente omogeneita’ non e’ uguaglianza, ma la garanzia del concetto di ragionevolezza appare significativa.
Si aprono quindi con questa sentenza interessanti piste di lavoro per chi desidera che i dati normativi siano coerenti con la complessita’ delle esistenze delle persone.
Anzitutto, in tema di convivenza, la apertura al riconoscimento di pacs e matrimonio all’estero .
Sappiamo infatti che una volta stabilito che le coppie omosessuali hanno diritto a un riconoscimento giuridico sara’ difficile non dare rilevanza giuridica a pacs o matrimoni esteri.
Ma altri spunti di applicazione dei principi della Carta di Nizza, solo per limitarci alla materia di famiglia, possono essere individuati nell’estensione dei diritti “ parentali “ ai figli naturali che ancora oggi sono esclusi dalla parentela con i familiari dei genitori ( a questo proposito sono pendenti disegni di legge bipartisan estensivi delle garanzie).
Altro profilo e’ quello del cognome su cui la Corte di Cass. Civ. Sez. I ord. 22.09.2008 n. 23934 ha invitato la S.V. a valutare se ai fini della presente controversia, alla luce della mutata situazione della giurisprudenza costituzionale e del probabile mutamento delle norme comunitarie, possa essere adottata un’interpretazione della norma di sistema costituzionalmente orientata ovvero, se tale soluzione sia ritenuta esorbitante dai limiti dell’attivita’ interpretativa, la questione possa essere rimessa nuovamente alla Corte costituzionale.
Anche in questa pronuncia il richiamo alla normativa europea e’ esplicito.
Con la ratifica del trattato di Lisbona di cui alla L. 2 agosto 2008, n. 130, si dovrebbe quindi aprire la strada all’applicazione diretta delle norme del trattato stesso e di quelle alle quali il trattato fa rinvio e, comunque, al controllo di costituzionalità che, anche nei rapporti tra diritto interno e diritto comunitario, non può essere escluso: a) quando la legge interna è diretta ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza dei trattati della comunità in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei suoi principi, b) quando venga in rilievo il limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona, c) quando si ravvisa un contrasto fra norma interna e direttiva comunitaria non dotata di efficacia diretta (corte cost., 13 luglio 2007, n. 284).
Già con l’ordinanza n. 176 del 1988 la corte costituzionale ha affermato che “sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale concili i due principi sanciti dall’art. 29 cost., anziché avvalersi dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro””. Con la sentenza n. 61 del 2006, inoltre, la Corte ha ribadito, ancora più nettamente, che ““l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’eguaglianza tra uomo e donna””. In entrambi i casi la corte ha implicitamente sollecitato un intervento del legislatore che, pur avendo affrontato il tema da ormai quasi un trentennio (proposta di legge n. 832 del 30 ottobre 1979), non è ancora pervenuto a soluzioni concrete (confr. Cass. Civ. Sez I ord. 22 settembre 2008 n. 23934)
Il nostro legislatore ha quindi un buon lavoro da attuare.
Nel frattempo concludo, lavorando sul “ vuoto” legislativo.
Alcuni comuni (Padova nel 2006) hanno creato spazi di liberta’, aderenti alla vita delle persone, inserendo nell’attestazione di famiglia anagrafica anche l’ipotesi di “ vincoli affettivi” sulla base della legge 24.12.1954 n. 1228 sull’anagrafe e l’art. 33 del Regolamento di esecuzione DPR 30.05.1989 n. 223.
La delibera del Comune di Padova afferma: “ Tenuto conto che la legge 24 dicembre 1954, numero 1228, ‘Ordinamento anagrafico della popolazione residente’, all’art. 1 prevede che l’anagrafe della popolazione residente deve essere tenuta registrando “le posizioni relative alle singole persone, alle famiglie e alle convivenze”; che il Decreto del presidente della Repubblica del 30 maggio 1989, n. 223, Regolamento d’esecuzione della predetta legge, all’art. 1 specifica che ‘l’anagrafe è costituita da schede individuali, di famiglia e di convivenza. Evidenziato che l’art. 4 dello stesso Regolamento d’esecuzione – si legge ancora nel comunicato – rubricato ‘Famiglia anagrafica’, riconosce che ‘agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozioni, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti e aventi dimora abituale nello stesso Comune”.
“Visto che l’art. 33 del Regolamento d’esecuzione stabilisce che l’ufficiale di anagrafe deve rilasciare certificati anagrafici relativi allo stato di famiglia e che ogni altra posizione desumibile dagli atti anagrafici ‘può essere attestata o certificata, qualora non vi ostino gravi o particolari esigenze di pubblico interesse, dall’ufficiale di anagrafe d’ordine del sindaco, impegna il sindaco e la Giunta Comunale ad istruire l’ufficio anagrafe affinchè rilasci ai componenti delle famiglie anagrafiche che ne facciano richiesta ‘l’attestazione di famiglia anagrafica basata su vincoli di matrimonio o parentela o affinità o adozioni o tutela o vincoli affettivi, quale pubblica attestazione delle risultanze delle schede di famiglia tenute; a predisporre la relativa modulistica e a sollecitare il Parlamento, attraverso i presidenti di Camera e Senato, affinchè affronti il tema del riconoscimento giuridico di diritti, doveri e facoltà alle persone che fanno parte delle unioni di fatto”.
Una strada che mi appare molto condivisibile perche’ sobria, rispettosa dei principi forti dell’ordinamento e dell’autonomia delle persone a cui l’ordinamento si limita a rimuovere gli ostacoli irragionevoli per l’espressione della loro liberta’ e responsabilita’.
Materiale utilizzato:
– sentenza Corte Costituzionale n. 138 14.04.2010 www.cortecostituzionale.it/giurisprudenza/pronunce
– ordinanza Tribunale di Venezia sez. III civile 04.02.2009
www.altalex.com/index.php?idnot=45870
– ordinanza Corte d’Appello di Trento
www.olir.it/documenti/?documento=5148
– ordinanza Corte Appello di Firenze 13.11.2009 www.giurcost.org/cronache/Firenze03.pdf
– Carta dei Diritti www.eurparl.europa.eu/charter/pdf/text_it.pdf
– ordinanza 22.09.2008 n. 23934 Cass. Civ Sez I
www.altalex.com/index/php?idnot=43026
– testo mozione Comune di Padova
www.repubblica.it/2006/12/sezioni/cronaca/padova-pacs

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